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domenica 25 gennaio 2015

Il nome del figlio

Il nome del figlio è il film che rivede alla regia Francesca Archibugi.
Adattamento italiano della piece teatrale francese Le prènom rivisita, attraverso una storia di famiglia e di amicizia, il costume e la storia del nostro Paese.
Il nome del figlio è un pretesto. Uno di quello con cui stuzzicarsi, su cui discutere e dividersi, intorno al quale ritrovare pace.
Già, i nomi evocano. Qualcosa o qualcuno. Talvolta sono schieramenti, neanche troppo velati. E qualche volta provocano. Proprio così. Sul gioco di un nome che irrita la suscettibilità ideologica di qualcuno e travolge i trascorsi di una famiglia, Il nome del figlio, smaschera vizi e debolezze di una combriccola di familiari e amici che ci rappresenta alla grande.
A una cena di festa, in attesa della nascita, viene fuori tutto, proprio tutto. Il pregiudizio, le ipocrisie, le questioni irrisolte, le rigidità e i luoghi comuni. Francesca Archibugi si giova di un cast straordinario: Alessandro Gassman, Valeria Golino, Rocco Papaleo, Luigi Lo Cascio, Micaela Ramazzotti interpretano i loro personaggi con un’intensità così sciolta da renderli palpabili, realistici.
Le relazioni sembrano improvvisamente saltare. Tutti mettono in discussione tutto e tutti. I giudizi si fanno spessi, acuti, sgradevoli. E le verità vengono a galla.  Anche quelle che sono scomode o scabrose, almeno secondo il piccolo sentire borghese.
Le due coppie, Gassman Ramazzotti e Lo Cascio Golino, si fronteggiano sebbene abbiano più motivi per fare luce al loro interno che sull’altra. Il single, amico d’infanzia, Rocco Papaleo sembra l’ago della bilancia. In fondo è stato sempre un po’ così. Lui a raccogliere le confidenze, lui a capire, lui a fare da ponte. Ma quella è la serata del botto e sarà proprio lui a sparigliare le carte, a mettere tutti spalle al muro. La ‘rivelazione’ getterà scompiglio ma sarà anche l’unica possibile premessa perché il gruppo e ciascuno ritrovino uno specchio con il quale fare i conti, sinceramente e profondamente.
Con tutta la forza degli affetti autentici Il nome del figlio è una commedia corale che toglie parecchia polvere dalle nostre case, tira fuori qualche scheletro dall’armadio, indica una direzione sociale e umana serenamente percorribile.
Peraltro lo scontro spesso è davvero una grande occasione. Non solo per confrontarsi senza finzioni ma per togliersi qualche fardello dalle spalle, qualche peso dal cuore, qualche palla dal piede.
Un cinema non urlato che soddisfa per la sua sensibilità, ironia, intelligenza. Un bel respiro. Bravi tutti, davvero.

Impagabile ed emozionante quel pezzo, perfetto, di Lucio Dalla: Telefonami tra vent’anni. Chapeau.

sabato 10 gennaio 2015

La mia vignetta non satirica

Se sapessi disegnare la farei, una bella vignetta. Per puntare (non) satiricamente il dito contro chi fa fatica a coniugare libertà, umanità, rispetto e coerenza. Ovvero più o meno contro tutti.
Altro che torti e ragioni, abbiamo perso il barlume del senso della vita e dei nostri limiti. Diritto di pensiero e parola diventano atrocità, dove ci sono e dove non ci sono. Ma è mai possibile, accidenti?
Io non sono al mondo per condannare qualcuno. E al massimo posso cercare di non meritarmi la condanna altrui. Così, su un piano morale, teorico, intendo. Praticamente è abnorme disquisire di violenza si o no, ma siamo così imperfetti che ci caschiamo eccome. Non solo in quella fisica, eclatante, anche in quella che uccide diversamente, magari quasi silenziosamente. Entrambe riprovevoli, certo. Girare intorno al problema o ai problemi non risolve ed è pure disgustoso, francamente.
Magari non c’è e non ci sarà mai la formula magica della pace, della serenità, della giustizia. Neanche però possiamo avvicinarci a qualcosa che vagamente e dignitosamente somigli a questa felice condizione se fingiamo, spariamo con ogni mezzo, prevarichiamo, ignoriamo.
Da qualche parte è nata la verità? E smettiamola. Di tirare in ballo i punti di vista, le fedi, le ideologie. E’ una menzogna arcinota la confusione di interessi di potere e smanie di superiorità con nobili o almeno comprensibili ispirazioni.

Ci ricordiamo che dobbiamo morire? Che siamo puntini invisibili nell’universo? Che ogni giorno mal speso è una sconfitta? Che cattiveria e stupidità sono avvilenti? Che il male è un boomerang?

martedì 6 gennaio 2015

Brutti ma buoni

Brutti ma buoni. Che sono anche delizie per il palato, lo so. Ma non penso a quelle. Vado dritta alle squisitezze dell’anima. Loro, i brutti ma buoni, hanno una marcia in più.
Fuori da ogni ipocrisia la storia dell’immagine è roba grossa. Oggi più che mai, forse. Si, diciamolo, siamo chiamati a essere belli. E allora loro, i brutti, dovrebbero quanto meno essere inaciditi. Dalla rabbia e dall’amarezza. Insomma la sfortuna dovrebbe scuotere i loro nervi e la loro anima.
E invece eccoli sfoderare, invece dell’umore nero e della perfidia, un soave sorriso, un gesto gentile, una pazienza amorevole. Brutti ma buoni. Uno spettacolo di personalità, una forza della natura, una lezione di vita.

Perché chi è messo alla prova o frana o si leva più in alto di tutti. E loro sono lassù, molte spanne sopra noi bellocci o guardabili che magari ci diamo pure qualche aria o ci lagniamo di chissà che.