Pagine

sabato 28 marzo 2015

Il valore della vergogna

La parola ‘valori’ è in disuso. Concettualmente legata al tempo, al luogo e alla loro cultura è diventato da trogloditi il riferimento ai valori. Quelli umani, intendo. Che invece delle cose andiamo in brodo di giuggiole, se ‘valgono’.
I valori umani sono terreno minato. Pare che il mondo sia diviso in fazzoletti di terra ciascuno portatore di un costume, di un ‘sentire’ e di un substrato diversi. Con la globalizzazione, termine invece in gran voga, è tutto doverosamente miscelato quindi guai ad avere cuore per un certo bagaglio o per un altro. Accidenti ma chi è stato quel farabutto che ci ha inculcato questa falsa modernità?
Cioè…la meravigliosa apertura, lo straordinario incontro, la fantastica fusione invece di arricchire dovrebbero impoverire? Che ignobile menzogna, che miserabile spirito, che indecoroso pensiero. Invece di un girotondo colorato che somma e amplifica i valori dovremmo fare un falò delle diversità e delle originalità? A me scappa un urlo di rabbia, disperazione, disprezzo. Accomodarsi su questa tristezza è un’autocondanna. No, grazie. Almeno fino a prova di colpevolezza sono innocente. E voglio provarci. A sostenere la libertà, quella vera. Che, innanzi tutto, è coraggio di credere, amare, ascoltare, dare amicizia, crescere, sperare, sognare, realizzare. Poi molto altro ancora, naturalmente.
Come guardare, ad esempio, e imparare. Sempre. Anche rispettare, ricordare, ridere, piangere. La libertà è coltivare il desiderio immenso di conoscere, camminare, accarezzare. Libertà è pure non avere stolto pudore dei sentimenti e delle idee. E non perdere mai, mai, il piacere di scambiare, confrontare, cercare armonie. Vuol dire riconoscere qualcosa in tutto e in tutti. Senza paura, senza arroganza, senza stupidità.
Allora se siamo diventati vili, orgogliosi, sciocchi, ciechi, scialbi dobbiamo ritrovare almeno un valore universale: quello della vergogna. Verso noi stessi e verso la vita. Smetterla di fare i progrediti con l’arretratezza mentale che ci morde il fianco. Smetterla di mettersi sopra o sotto. Smetterla di fingere. Smetterla di inseguire quello che non c’è e di perdere quello che c’è.
La libertà è essere audaci. Già. Ci vuole la sensibile audacia dell’intelligenza per avere le ali senza tarpare quelle altrui, per porgere i propri valori e accoglierne altri, per respirare la bellezza dell’infinito. Persino per pronunciare la parola ‘valori’ o per scriverla. Che vengono a farti le pulci quelli che ti accusano di voler stare in un recinto ormai vecchio e quelli che ti prendono a modello per sbandierare difese assurde di chissà quale gloria.
Non è cosa turpe, macché. Valori, valori, valori. Gialli, bianchi, neri, di
qualsiasi forma, di ogni profumo, di tutti i gusti. Basta che siano umani, pacifici e altrettanto disponibili bisognerebbe aggiungere. D’accordo, lo aggiungo. Però non contestatemi ‘umani’. Eh si, temo che alla fine si scopra che pure la parola ‘umani’ sia in disuso in ragione di qualche altra diabolica manfrina sulle valutazioni del significato profondo.

Praticamente siamo la peggior specie di bestia. Bestia andrebbe benone, è sulla peggior specie che potremmo lavorare…Forse.

venerdì 27 marzo 2015

Pace tra gli ulivi

Ma che vuoi trovarci tra gli ulivi!?

La pace, la pace, voglio trovare tra gli ulivi.

Solo una frase fatta, dai, che sciocchezza. Guarda bene, orizzonte sgombro, alberi e ancora alberi. Nessuna insegna, zero case, sole a picco, terra scura, nulla di eccitante. Cosa pensi ci possa essere di davvero stupefacente?


Credi che la pace non lo sia?

mercoledì 25 marzo 2015

La buona volontà

Io ci penso eccome, alla buona volontà. Che qualche volta si sveglia con me al mattino e brilla tutto il giorno, altre volte lotta ma perde la battaglia perché io  remo contro, ribelle o annoiata, in certe albe uggiose non si fa trovare anche se mi sembra davvero di cercarla con tutta la passione del mondo.
Mi chiedo se e fino a che punto lei abbia una vita autonoma. Insomma chi ha in mano il telecomando, lei o io?
La ragione del pensiero inquieto è il senso. Della buona volontà, intendo. Nel mezzo di ansie e gioie quanto serve la buona volontà? Verrebbe pure la curiosità di sapere se c’è un premio, alla fine, per l’eventuale fedeltà. E le origini, ecco sulle origini non ci dormo la notte. E’ come la primogenitura contesa tra uovo e gallina:  chi è nato prima, la buona volontà o io?
Già, che se fossi nata con la buona volontà incorporata magari cedimenti non ne avrei mai. Se invece il destino è quello di pescarla ogni giorno va da se che qualche volta non abbocchi all’amo o io sbagli mare, lago, fiume.
Ma l’ingarbuglio sta proprio lì. Come accidenti mi muovo a onorarla se non è lei stessa a motivarmi? Niente da fare. Non ci sono scuse e neanche vie di fuga. L’imperativo non ammette deroghe e debolezze. Bisogna.
Se non mi ispira, non la vedo, non è pronta la devo tirar fuori dal cappello del prestigiatore. Che ci sia vento o pioggia. Che sia un piacere o un fardello. Che mi sorrida o mi segua col muso.
Altro che sano egoismo. Le contraddizioni in termini non sono ammesse.
D’altra parte la buona volontà almeno non porta sensi di colpa. E forse alle stelle interessa solo questo, così sono sempre in pace con la coscienza. Loro sono lì, ci sono, accidenti se ci sono. Se non guardo in su mica stanno a rimproverarsi perché brancolo nel buio, la voglia e la forza di alzare gli occhi ce la devo mettere io.

E in un lampo di buona volontà scopro che tutte le cose belle le regala lei. Non c’è altro da aggiungere. Quando la memoria proverà a svicolare rileggerò queste righe: scripta manent.

martedì 17 marzo 2015

Basilicata: cosa vuoi più di una Pepsi?

Non solo Lucano, adesso c’è la popolare Pepsi Cola. Già, il nuovo spot della bibita sarà girato tra Matera, Craco e Aliano.
E avanti, insomma. Di film in evento, sempre più in scena. A sdoganarla, la Basilicata dei giorni nostri, è stato il mitico Rocco Papaleo naturalmente. Con e dopo di lui riflettori puntati. Già, i paesaggi. O forse la novità: le atmosfere che praticamente altrove dovresti riprodurre artificialmente con un pesante lavorio retrò e invece tra i Sassi e i calanchi trovi intatte.
La verità sta qua e là, in parecchi giri che è quasi impossibile compiere in una manciata di righe. Resta il senso, quello che può avere e quello che –chissà- potrebbe svelare orizzonti intellettuali.
Avendo qualche esperienza mi viene da pensare alle aree protette, quelle che con l’idea di mantenerle incontaminate vengono difese anche troppo. Tanto da tenerle ferme, per intenderci. Del resto penso anche alla terra alla riscossa, quella che esce dal silenzio, trova una voce e, finalmente, si mette a parlare. Insomma fa un discorso suo, ecco. Che non è solo adagiato sugli allori della natura, del passato, di un confinato illustre e di qualche prelibatezza ma che, anzi, intraprende un cammino.
Questione di personalità, diciamolo. Quella di Basilicata è zona peculiare. Assai, direi. E questo dovrebbe essere il punto di partenza. Ora che c’è la luce mi piace immaginare i lucani all’opera. Per guardare avanti. Per non farsi appiccicare addosso il bollino di parco sotto tutela.
Devo spiegarmi meglio?
Credo che sia tempo di scelte e passione. La crisi non aiuta, lo so, ma il pericolo si annida altrove. In ogni angolo di questo Paese dovremmo andare fieri del patrimonio che abbiamo ereditato. Però a rimirarlo rapiti non se ne cava granché, al di là di una propria intima beatitudine, ovvio. Bisogna farlo respirare, accidenti. Mentre vagheranno con Pepsi in giro per il mondo sarà bene che i panorami si apprestino ad aprirsi allora.
Basilicata on my mind, canta meravigliosamente Papaleo. Ecco, bisogna tenerla in testa, non stretta in pugno. E’ una terribile prospettiva quella dell’enclave, finisce per odorare sempre di extrafrontiera. E’ come tenere una serra nel bel mezzo di una libera campagna.

Forza Basilicata libera, canterei ora. Che vuol dire affrancata dalla rischiosa illusione che l’originalità valga l’isolamento. Niente è grande davvero se non può essere nel cuore di tutti.

sabato 14 marzo 2015

Il ritratto: Antonio Mesisca, il social killer

E’ un assassino buono, Antonio Mesisca. Magicamente lascia in vita le sue vittime. Potrebbe però tenere corsi come social killer. Il suo mestiere è inchiodare allo schermo: chi conosce il mestiere vero può anche ridere ma, assicuro, la connessione è puramente casuale.
Mischia (minchia è solo per chi non conosce lui, il Mesisca), che personaggio.
Ci sa fare su facebook perché ha un cuore di panna acida –non inacidita, acida- capace di un’ironia dolce decisamente dirompente. Mica prende tutti per il naso, macché, spruzza indulgenza e umorismo in proporzioni perfette. Conosce i suoi polli, cioè conosce l’utente medio dei social e, of course, il costume, sa giocarci con sapiente arguzia, si tiene a debita distanza dall’uso sconsiderato del diario pubblico.
Già, la pagina del Mesisca è un bailamme di tiro al bersaglio e carezze, punti interrogativi ed esclamativi. Da buon osservatore della fauna internettara prende amabilmente di mira tutti, dalle gattare ai gustosi viziosi di ogni genere e tipo. Entra ovunque, nelle pieghe del supermercato, nell’intimità, nelle questioni sociali, con il dito morbido e sinuoso, quello che più che mettere all’indice (pur se di dito si tratta) blandisce, scherza, ammonisce col sorriso.
Lucido e sempre sul pezzo. Mischia, di notte immagino il Mesisca che si informa per non perdere un colpo. Mai banale ma sempre fresco e immediato.
Tastiera siluro, il social killer. Con la battuta sciolta e la relazione perennemente cordiale. Eh si, non si inalbera lui. Chi di social ferisce così bene sa incassare, altrettanto bene, qualsiasi colpo.
Che poi…chi dovrebbe infierire su un killer così garbatamente frizzante e graffiante?
E’ una boccata d’ossigeno! Puoi avere addosso un attacco di noia mortale o qualche angoscia ingombrante eppure con lui un mezzo ghigno ti esce. Finalmente, ti scappa di sussurrare con sollievo. Qualcuno che sa usarlo, facebook. Per studiare il piccolo grande mondo che gli ruota intorno, per distogliere lo sguardo dall’ombelico, per svagarsi e svagare, per sollecitare qualche pensiero fuori ordinanza, per non accumulare troppi vaffa inespressi.
Da scrittore votato alla chiara fama non è poco. Anzi. Il Mesisca esercita il diritto dovere di conoscere ‘lagggente’ fino in fondo, in quei meandri che uno dice figurati se scopri su facebook e invece è proprio lì che incontri se li sai leggere…tutto d’un fiato.  
Certo c’è stoffa da vendere, in intuizione. Perché bisogna cogliere tutto per far
partire il guizzo sagace. E il Mesisca è uno che fa meravigliosamente equilibrismo tra pieghe brutte e risvolti entusiasmanti, tra amarezza e allegria. Alla fine, diciamolo, il segreto di una vita sostenibile è nella leggerezza intelligente del Mesisca che, mischia, non si monterà la testa neanche questa volta…
Altro che onore al merito, mio caro, tu sei il mio antistress. Mi riconcili, non poco, con certe derive social: con te c’è lo sfizio del lato B. No, non è il culo dai, è solo il rovescio della medaglia, la risata che ci salva del delirio.

Mischia, mi tocca ringraziarti. Chapeau.
p.s. continua a seccare tutti, mi raccomando.

sabato 7 marzo 2015

Tragicomico

Il risvolto non può che essere tragicomico, come la vita stessa.
Peccato si colga spesso solo l’aspetto tragico o comico. A svilire la forza della verità è il nostro sguardo debole, il nostro spirito povero.
Capita, eccome. Di piangere e ridere un poco stoltamente. Con superficiale distacco dall’altro pezzo di realtà. Nella piega invece si cela tanto l’occasione per rattristarsi e commuoversi quanto quella per sorridere e divertirsi.
Oh certo ci vuole lo zampino vivace di un’intelligenza acuta. Magari anche talmente provata dagli eventi da avere tutti in recettori in stato di allerta.
Un nervo scoperto che convive con una profonda indulgenza. Un animo caldo che sconta il gelo di qualche orrore. Una sensibilità lungamente esposta a sollecitazioni d’ogni colore.

Mi piacerebbe, mi piacerebbe tanto l’umanità avesse sempre tutti i sensi pronti, buoni e abili.

giovedì 5 marzo 2015

Il calvario di Pina

Il calvario di Pina
di
Gian Contardo Colombari
Gian Contardo Colombari scrive Il calvario di Pina in memoria della madre.
Un libro d’amore, innanzi tutto. Eppure c’è molto altro in questo ‘omaggio’. Colombari ha dimestichezza con la scrittura, in prosa e poesia. E ha purtroppo confidenza pure con la sofferenza. La sua, per una disabilità con la quale ha dovuto imparare a convivere quando erano ancora assai deboli le filosofie e le azioni di sostegno (Colombari è del 1960), e quella della madre e del padre per una vita di sacrifici e rinunce.
La malattia della madre arriva quando il Colombari è adulto, laureato, inserito nel mondo del lavoro ma, appunto, consapevole di quanto Pina si fosse spesa per lui e per la famiglia. Una vita di coraggio e dedizione. Una vita di dolce e costante presenza. Il calvario è lungo e, tra casa e ospedali, entrano nella quotidianità di Gian Contardo, della madre e del padre, medici, infermiere, badanti ma, soprattutto, nuovi percorsi di affetto e scambio. Si invertono un po’ i ruoli, si mescolano i piani, si sperimentano formule di intesa.
L’affetto si mostra saldo. Anzi, si nutre di una straordinaria sensibilità.
Ma Il calvario di Pina non è solo un libro d’amore. E’ uno spaccato culturale, una finestra sui meandri della fatica e dell’umanità, un inno di speranza. Quello che Gian Contardo Colombari compie, infatti, è una sorta di viaggio -emozionato ed emozionante ma lucido- nella potenza delle relazioni e delle possibilità di crescita personale. Già, il commiato sereno di Gian Contardo Colombari all’angelo Pina, sua madre, è la prova commovente della virtù educativa dei sentimenti.
Non credo affatto di azzardare se penso a quale fortuna abbia avuto l’autore. E’ come se avesse abbondantemente superato lo ‘svantaggio’ della disabilità… perché quel nucleo di valori e tradizioni l’ha consegnato alla maturità, alla coscienza individuale e sociale, alla forza caratteriale.
E, ancora, Il calvario di Pina è una eccezionale elaborazione del lutto. Più che morte e distacco, infatti, c’è l’ampio respiro di ciò che li ha uniti.
Francamente, nonostante la tristezza e il dolore, una storia così allarga il cuore su orizzonti magnifici. Conoscendo anche il Gian Contardo ironico e abile con la satira so che il suo spirito brillante discende proprio da una splendida e profonda risorsa di perenne energia: quella dei semplici e autentici principi di buona vita. Tenero e arguto come solo sanno essere le anime belle, Colombari ha scritto quello che il più delle volte resta nei pensieri. Si, maneggiamo tutti un po’ a fatica amori, pene, morte e ci doniamo poco, quasi dovessimo –chissà come e perché- metterci in salvo da qualche debolezza.
Macché, è davvero audace invece confrontarsi, con la realtà, con le lacrime, con gli addii. E anche presentarsi nudi, con le proprie tribolazioni, la dimensione intima dell’intreccio con i propri cari, l’odissea della salute infranta.
La signora Pina, ovunque sia, ora sorride e piange di gioia.
Una lezione di dignità e fierezza. Una boccata d’aria fresca.

Grazie Gian Contardo Colombari.

Riccadonna Editori.